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La quattro ricette per vincere la sfida dell'auto low cost

di Marco Zurru *

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1 DICEMBRE 2008

Il mercato delle auto low cost/low budget è in continua espansione, per vari motivi. La crescita cinese e indiana comporta una domanda focalizzata su fasce di prezzo sostanzialmente inferiori a quelle occidentali. Nei Paesi occidentali continua il ridimensionamento numerico della classe media e l'ampliamento del divario tra percettori di redditi bassi ed elevati; inoltre la maggior attenzione ai temi ambientali e la crescente congestione urbana spinge la domanda verso vetture più piccole. Infine la crisi finanziaria e il declino della fiducia dei consumatori porteranno a un aumento dell'attenzione per il rapporto costo/prestazioni.
Dopo lo studio del 2006, Roland Berger Strategy Consultants ne ha realizzato un secondo che descrive e interpreta i modelli di business con cui gli Oem affrontano l'opportunità offerta da questo segmento per il quale prevediamo un incremento di circa quattro milioni di veicoli in sei anni, fino ai 17 milioni nel 2012, con uno sviluppo concentrato su India (crescita annua dell'8%), Cina (13%) e su alcuni mercati occidentali (9% negli Usa).
Sono quattro i modelli di business che caratterizzano l'approccio dei principali player. Si differenziano per coinvolgimento dei fornitori, approccio allo sviluppo prodotto, ammontare degli investimenti in automazione, relazioni con gli altri stakeholder.
Gli Oem occidentali affrontano il tema della low cost con un modello tradizionale: economie di scala e applicazione rigorosa delle metodologie di design-to-cost. In molti casi convertendo piattaforme esistenti (già ammortizzate) e focalizzando l'attenzione sui contenuti di prodotto e sul sourcing dei componenti. Emblematico il caso Logan, che ha sfruttato la piattaforma X 90 (vecchia Mégane) con un sistematico carry over dei principali componenti, risparmiando oltre il 45% del costo di sviluppo piattaforma. La Logan ha raggiunto una struttura di low cost car anche con la ricerca puntuale delle sole funzionalità effettivamente richieste dal cliente finale.
Gli Oem giapponesi seguono una strada diversa, fondata sul concetto di ottimizzazione di processo nell'ambito di un network globale per garantire ripetitività e qualità uniforme. Tale approccio, che ha portato grandi risultati sui mercati tradizionali, rischia però di trascurare le opportunità di miglioramento che provengono dal ridisegnare i processi in funzione delle condizioni specifiche dei mercati emergenti. L'uniformità di approccio impedisce di sfruttare appieno le flessibilità di specifici mercati del lavoro. Inoltre il modello giapponese si basa sul Kereitsu, che vede i fornitori legati a un solo Oem, anche tramite un complesso sistema di partecipazioni incrociate che scoraggia lo scambio di informazioni con l'esterno, rischiando di limitare la capacità di innovazione del parco fornitori.
«Low cost cloning» esprime bene l'essenza del modello cinese: soluzioni clonate e sfruttamento sistematico della base low cost locale. Gli Oem cinesi utilizzano le opportunità della componentistica locale per definire quasi "bottom-up" modelli che aggreghino il meglio del rapporto prezzo/prestazioni: è spesso il fornitore a definire le specifiche, mentre gli Oem sono responsabili solo per il 10-15% dello sviluppo prodotto: ciò consente costi di sviluppo di poche decine di milioni di euro, contro le centinaia degli Oem occidentali. A questo si combinano l'utilizzazione sistematica di manodopera a basso costo e investimenti limitati: i cinesi realizzano fabbriche da 100mila veicoli/anno con meno di 100 milioni di euro contro i circa 400 per impianti equivalenti in aree low cost e oltre 700 in Occidente. Il basso costo della manodopera compensa poi la bassa produttività (circa il 25-30% di quella occidentale).
L'approccio più innovativo è però quello indiano, esemplificato dalla Tata Nano. Si basa su un concetto di «Collaborazione competitiva» con i fornitori e su uno stretto rapporto con il tessuto sociale in cui l'Oem opera. Nel caso della Nano come prodotto sostitutivo delle due e tre ruote, il progetto ha comportato la progettazione da zero del nuovo veicolo. Questo ha consentito, ad esempio, di posizionare il motore posteriormente, diminuendo i carichi sullo sterzo, con conseguente riduzione di costi. Per il progetto si è avviato un dialogo con i fornitori, sia sfruttando opportunità e capacità degli oltre 30mila suppliers locali (includendo due e tre ruote), sia richiedendo a grandi player internazionali quali Bosch e Basf la progettazione di nuovi componenti specifici, investimento giustificato dai volumi previsti (un milione di vetture/anno). Gli investimenti in automazione sono limitati a quelle fasi del processo produttivo che richiedono la massima precisione. In compenso Tata investe in infrastrutture sociali, creando così una forte partnership con le comunità locali, che rispondono con una manodopera leale, dedicata e sostanzialmente meno cara.
Il fenomeno low cost è destinato a durare e impone logiche che potranno influenzare gli assetti globali del settore. Per competere a tutto campo con India e Cina su questo segmento in forte crescita sarà necessario modificare rapidamente modello di business: l'ottimizzazione di processo giapponese e la trasformazione di vecchie piattaforme dei player europei non bastano a contrastare la «Collaborazione competitiva» indiana e il «Low cost cloning» cinese.

* Senior partner
Roland Berger Strategy Consultants

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